giovedì 19 settembre 2013

La disciplina giuridica del contratto di outsourcing - DOSSIER 'Outsourcing e gestione dei servizi archivistici e documentali' - CAPITOLO III



Nel nostro ordinamento giuridico, non esiste una forma tipica di “contratto di outsourcing”; esso viene pertanto inquadrato nell’ambito dei contratti cosiddetti “atipici”, ossia quei contratti che la pratica pone in essere pur in assenza di uno schema contrattuale regolamentato dalla legge.
L’outsourcing si colloca così in una particolare categoria di contratti definiti “misti” o “complessi”, caratterizzati cioè dalla fusione di elementi che appaiono essenziali in diversi contratti tipici, generando in tal senso il problema della disciplina giuridica da applicare di volta in volta.
Nello specifico, la disciplina giuridica dell’outsourcing è un’evoluzione del cosiddetto facility management. Essa prende spunto dai modelli di contratti di outsourcing tipici del sistema angloamericano dei cosiddetti sourcing contract, che possono essere distinti a seconda della natura dell’obbligazione che connota la prestazione del fornitore, dell’oggetto della prestazione e della strategia aziendale adoperata.
Si può affermare che una delle principali differenze di tecnica redazionale dei contratti di outsourcing è rappresentata dal fatto che, mentre nei paesi di Common Law ci si focalizza molto sugli aspetti riguardanti la fase di esecuzione vera e propria del contratto e sulle metodologie di prevenzione delle controversie, in Italia il dibattito è ancora oggi concentrato sull’inquadramento giuridico vero e proprio del fenomeno e sulla sua riconducibilità, o meno, ad altri tipi contrattuali.
Secondo la dottrina più autorevole si applica, per analogia, la teoria dell’assorbimento, ossia la disciplina del contratto la cui funzione è in concreto prevalente.
Ad ogni modo, i modelli contrattuali tipici ai quali il contratto di outsourcing può essere ricondotto sono il contratto d’opera, la locazione di cose, la vendita, la somministrazione e il contratto di appalto di servizi.
Tra questi, quello che raccoglie maggiori consensi per l’applicazione della relativa disciplina contrattuale di outsourcing sembra essere il contratto di appalto e precisamente “appalto di servizio con prestazioni continuative”, a cui sia applica la disciplina dell’appalto privato.
Un primo confronto può essere fatto tra il contratto di appalto e il contratto d’opera, perché entrambi, come si evince dall’art. 2222 c.c. e dall’ex articolo 1655 c.c., presentano come oggetto tipico dell’obbligazione il compimento di un’opera o di un servizio.
Ciò che, in questo caso, favorisce la disciplina dell’appalto come schema contrattuale tipico è costituito dalle modalità di svolgimento del servizio, che nel contratto d’opera presume l’esecuzione con lavoro prevalentemente personale del prestatore, precludendo in via generale “l’organizzazione di mezzi”, tipico elemento del contratto di outsourcing, garantito invece dal contratto di appalto. Tale elemento qualifica in questo caso il fornitore come imprenditore presupponendo insieme all’organizzazione dei mezzi la gestione a proprio rischio.
Il fatto che il fornitore si assuma o meno l’organizzazione di mezzi propri e la gestione a proprio rischio, è fondamentale sotto il profilo giuridico, in quanto l’eventuale assenza di questo elemento nei contratti di outsourcing non solo impedisce la loro configurabilità quali contratti tipici di appalto, ma conferisce loro un carattere illecito ai sensi della legge 23/10/1960 n. 1369. Ai sensi dell’art 1, tale legge impone il divieto all’imprenditore di dare in appalto o in subappalto, l’esecuzione di opere o servizi di qualunque natura, a soggetti che si avvalgano per l’esecuzione di manodopera personalmente assunta e retribuita, ma che siano privi di una propria organizzazione d’impresa.
Le clausole penali comportano delle preventive quantificazioni tra le parti dell’entità del danno risarcibile in caso di inadempimento, e operativamente vengono applicate per mancato rispetto del SLA (Service Level Agreement) concordato.
Sicuramente ricorre nel contratto di outsourcing la locazione di cose quando il fornitore si obbliga, per la prestazione del suo servizio, a far utilizzare al suo cliente una cosa per un certo periodo di tempo in cambio di un determinato corrispettivo. In questo caso, il contratto di appalto risulta prevalentemente laddove la locazione di cose rimane una prestazione accessoria che non può influire sulla qualificazione giuridica del contratto.
Affinità possono, inoltre, essere riscontrate tra il contratto di vendita e il contratto di outsourcing, visto che quest’ultimo può avere come oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o di un altro diritto in cambio del pagamento di un corrispettivo, proprio come previsto dal contratto di vendita.
La differenza sostanziale sta nel fatto che nel contratto di vendita l’elemento predominante è “la fornitura del bene dietro corrispettivo”, mentre con il contratto di outsourcing al fornitore sono richieste specifiche conoscenze, metodologie e competenze professionali.
Inoltre, poiché l’outsourcing generalmente è un contratto di durata, che consente di soddisfare un bisogno durevole, richiama la disciplina giuridica del contratto di somministrazione, in base al quale una parte si obbliga ad eseguire a favore di terzi prestazioni periodiche o continuative di cose.
L’outsourcing, quindi, in quanto processo attraverso il quale si assegna al fornitore esterno la gestione operativa di alcune produzioni o servizi in precedenza eseguiti direttamente dall’impresa, può determinare o meno il trasferimento nella titolarità dei mezzi necessari alla produzione di tali attività o funzioni. Ciò comporta che l’outsourcing, in quanto, coma sopra affermato, fattispecie contrattuale atipica, può subire non solo gli effetti della normativa dettata per il contratto di appalto, ma anche quelli derivanti dalla normativa predisposta per il trasferimento d’azienda, disciplinato, nel nostro ordinamento giuridico, dall’art. 2112 c.c. e successive modifiche, e dalla legge 29/12/1990, n. 428.
L’articolo 2112 del Codice Civile, al comma 5, stabilisce che si può parlare di ramo d’azienda solo quando ci si trovi di fronte ad “un’articolazione funzionale autonoma di un’attività economica organizzata ai fini della produzione e dello scambio di beni e servizi, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”.
L’art. 32 della L. 14/02/2003 (Riforma Biagi) ha tuttavia modificato il comma 5 del suddetto articolo del Codice Civile affermando che “per trasferimento di azienda si intende qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità dell’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato, ivi compreso l’usufrutto o l’affitto d’azienda. Le disposizioni trovano applicazione anche al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento della sua cessione”.
La legge Biagi quindi, stabilisce che il presupposto fondamentale per poter trasferire un ramo di azienda e per poter quindi dare in outsourcing un’attività, è che questa goda di autonomia funzionale al momento del trasferimento, vale a dire sia autonomamente identificabile rispetto al resto dell’azienda e abbia funzioni proprie.
Secondo questa interpretazione in un contratto di outsourcing, il trasferimento di un complesso di beni e persone non darebbe necessariamente vita ad una cessione di ramo d’azienda, per la mancanza soggettiva del requisito di autonomia operativa ed economica.
In particolare, la giurisprudenza ha affermato che la fattispecie del trasferimento di un ramo d’azienda può avvenire in diversi modi, ma genericamente consiste nel raggruppare alcune attività non strategiche dell’impresa con i dipendenti addetti a tali attività ed i relativi strumenti necessari per realizzarle e trasferire questo “segmento di azienda” ad altre società, già esistenti o costituite ad hoc per l’erogazione di specifici servizi.
Tale cessione dell’insieme di beni, talvolta molto articolato, richiede un’attenta analisi di stato, di fatto e di diritto, del ramo di azienda considerato. La prima fase che si verifica in prospettiva di una cessione di un ramo di azienda è la cosiddetta due diligence, ossia quel procedimento attraverso il quale il cliente mette a disposizione del fornitore che intende acquisire il ramo, tutti i dati (documenti ufficiali, contratti, ecc..) attinenti il ramo stesso, affinché il fornitore possa individuare con cura tutti i parametri necessari al fine di formulare la propria offerta in maniera coerente e sostenibile.
Quanto affermato dalla L. 14/02/2003 è stato in un certo senso confermato dalla Cassazione, con una sentenza (Cass. 2/10/2006 n. 21287) che sostiene che il cosiddetto dare in “outsourcing” alcuni segmenti nella gestione dell’attività produttiva non significa necessariamente cedere un ramo di impresa e che si può operare una netta distinzione tra appalto e cessione di impresa.
In tal senso la cessione di ramo di impresa, agli effetti dell’art. 2112 c.c., deve essere intesa come il trasferimento di un insieme di elementi produttivi, personali e materiali, organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonomia ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa stessa e che conserva nel trasferimento la propria identità. Al contrario, l’appalto di opere e servizi o di manutenzione degli impianti all’interno dello stabilimento, è un contratto diverso poiché si presume che una parte assumi, con proprio personale e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio in cambio un corrispettivo in denaro.
In altre parole, se si cede il ramo di impresa viene, di fatto, trasferito un intero segmento dell’organizzazione produttiva, dotato tra l’altro di autonomia e persistente funzionalità. Invece, nel caso di appalto di servizi, il committente non dismette un segmento produttivo ma si avvale semplicemente dei prodotti e dei servizi fornitigli da un’altra impresa.............

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