L'economia della conoscenza sembra una "invenzione" o una "scoperta" degli ultimi anni. Apparentemente eredita il mito che, nel periodo della New Economy, era stato costruito intorno all'informazione (ossia alla conoscenza codificata in modo da essere trattata da algoritmi computerizzati). Solo che, nel linguaggio, si slitta dal termine (altamente compromesso con lo sboom della New Economy) di "informazione" a quello, più intellettuale e aperto, di "conoscenza".
Del resto, si tratta di uno slittamento naturale, inevitabile. Una volta emersi i limiti dell'informazione, che è conoscenza separata dai processi di apprendimento che l'hanno prodotta, si è scoperto la conoscenza come surrogato (equivalente funzionale) dell'informazione, riproponendo spesso lo stesso schema con la sola sostituzione del termine linguistico. Se il passaggio dall'informazione alla conoscenza viene preso sul serio, tuttavia, ci si accorge che la cosa non è così semplice e neutrale come sembra a prima vista. Una volta che l'economia dell'informazione (con le sue straordinarie proprietà replicative = riproduzione a costo zero) viene trasportata in un ambiente complesso, dove bisogna continuamente mettere a punto le conoscenze possedute per "inseguire" un ambiente non prevedibile, non basta più quel tipo di conoscenza codificata che sono i bit e il software destinati all'intelligenza dei computers e delle macchine, senza intervento dell'uomo e dell'apprendimento tipico degli uomini. Anche la mera replicazione di un'informazione o di un programma di software richiede un processo di apprendimento che mette in campo elementi di incertezza, di valutazione, di chiarificazione e di azione da parte di uomini e gruppi di uomini. Ciò riduce gli spazi disponibili per l'automatismo moltiplicativo proprio dell'informazione, e, al tempo stesso, aumenta - grazie all'adattamento e alla re-invenzione degli usi - la capacità di propagazione della conoscenza originale in un contesto di uso sempre più esteso e durevole. Dunque, l'economia della conoscenza è una cosa diversa dall'economia dell'informazione che trionfava ancora anni fa, e che aveva dato luogo alla metafora del "capitalismo informazionale" di Castells, anche se ci possono essere dei ponti che collegano i due mondi.
In realtà, questa (recente) filiazione dell'economia della conoscenza dall'economia dell'informazione è assolutamente riduttiva rispetto al ruolo reale che la conoscenza ha svolto come forza produttiva, assai prima che esistessero i computers e gli automatismi informatici.
Possiamo dire che la conoscenza è stata sempre - anche nel passato remoto - una risorsa importante ai fini della produzione (la produzione dell'homo sapiens è in effetti un'attività "sapiente" perché si distingue da tutte le altre attività produttive, naturali o animali, dal momento che impiega nel lavoro le capacità intellettuali del cervello umano), ma diventa forza produttiva fondamentale solo con l'età moderna, ossia in corrispondenza di quel passaggio fondamentale che fa emergere la conoscenza scientifica come conoscenza autonoma, libera dal potere della religione, della tradizione e dell'autorità politica. La scienza conquista questa autonomia utilizzando come banco di prova per la verità di un'affermazione il principio galileiano dell'esperimento, ossia della riproducibilità delle relazioni causa-effetto affermate.
Ma, una volta che si enuclea un sapere che ha la caratteristica di essere riproducibile, l'economia reale ha a disposizione una formidabile risorsa: una conoscenza astratta (quella della scienza e della tecnologia) che è costruita in modo da essere riproducibile dieci, cento, mille volte e in contesti diversi. Il capitalismo delle macchine, che nasce dalla rivoluzione industriale e si afferma nel corso dell'ottocento come economia della (prima) modernità ha, in effetti, la sua ragion d'essere nelle macchine, che incorporando conoscenza riproducibile (basata sulla scienza), consente enormi economie di scala. Infatti, il lavoro impiegato per progettare la prima macchina può essere ri-usato a costo zero per costruire la seconda, la decima, la millesima macchina. E il lavoro impiegato per progettare la prima unità di un prodotto ottenuto dalle macchine può essere ri-usato altrettante volte per ottenere migliaia o milioni di prodotti identici.
Questo significa che ogni euro (o ora di lavoro) investito nella produzione di nuova conoscenza può rendere molto o anche moltissimo, dal momento che quella conoscenza può diventare utile - generando valore per gli utilizzatori - non una ma cento, mille volte, con effetti moltiplicativi che cambiano radicalmente il significato del produrre rispetto all'economia pre-industriale. La novità sostanziale apportata dalla modernità sta in questo: nel fatto che diventa conveniente - grazie alla natura riproducibile della conoscenza - investire in processi di apprendimento. Si comincia a lavorare non per ripetere operazioni già note, ma per innovare, inventando nuove macchine, nuovi prodotti, nuovi significati. In precedenza la conoscenza veniva usata, ma - non essendo conoscenza riproducibile - il suo limitato bacino di uso rendeva non conveniente investire in apprendimento. La conoscenza che veniva usata nell'agricoltura pre-industriale o nell'artigianato era, in effetti, conoscenza ottenuta gratis dalla tradizione o da processi di learning by doing e di apprendistato che, pur avendo bassi costi, non realizzavano mai grandi economie di scala (da riuso). L'economia della conoscenza comincia dunque ad operare due secoli e mezzo fa, attraverso la meccanizzazione, per svilupparsi poi nel fordismo (dove diventa "organizzazione scientifica"), nell'economia dei distretti (sotto forma di economia della propagazione territoriale delle conoscenze relative alle tecnologie e ai mercati distrettuali), nella New Economy (in cui prende la forma di economia della replicazione/propagazione automatica delle informazioni).
Oggi ereditiamo tutto questo: non possiamo dunque dire che sia una novità. In tutta la modernità (dalla rivoluzione industriale in poi), il capitalismo moderno è stato una economia della conoscenza nel senso che il valore è stato prodotto, in gran parte, dalla propagazione degli usi delle conoscenze disponibili, e dal conseguente re-investimento dei profitti e dei salari così ottenuti nella produzione di nuove conoscenze.
Ma, perché il riferimento alla conoscenza non sia soltanto ornamentale, bisogna capire bene che cosa vuol dire: in cosa differisce il motore dello sviluppo economico quando questo motore viene alimentato dalla produzione e propagazione delle conoscenze, rispetto alla visione classica, in cui, invece, la "benzina" della crescita è data dall'accumulazione nel tempo del capitale e dai guadagni di efficienza che possono essere ottenuti allocando meglio le risorse, grazie alla forza selettiva del mercato e del calcolo imprenditoriale?
In linea generale, possiamo parlare di economia della conoscenza ogni volta che ci troviamo di fronte ad un segmento del sistema economico in cui il valore economico (utilità per i soggetti economici) viene prodotto attraverso la conoscenza. In questi casi, il lavoro umano non trasforma la materia prima, ma - se è lavoro cognitivo - genera conoscenze innovative che, col loro impiego, saranno usate per trasformare la materia (con le macchine) e creare indirettamente utilità. Oppure potranno, in altri casi, fornire servizi utili anche senza trasformare la materia prima, ma semplicemente fornendo un'informazione, una consulenza, una comunicazione che generano direttamente utilità presso l'utilizzatore ecc..
Le utilità create dall'uso della conoscenza possono derivare da diverse forme di uso. Prima di tutto possono derivare dalla riduzione dei costi di un precedente processo produttivo (efficienza). Ma possono anche derivare dalla creazione di un nuovo prodotto o servizio, che non esisteva in precedenza, o dalla produzione – attraverso la conoscenza – di significati, desideri, identità. Oppure dalla personalizzazione del servizio, dalla progettazione di esperienze coinvolgenti, dalla costruzione di rapporti fiduciari e di garanzia e così via. In tutti questi casi, la base materiale di un prodotto può anche rimanere inalterata o subire modificazioni banali: quello che crea valore, infatti, è direttamente la conoscenza, nelle sue varie forme, che viene applicata a tale base materiale.
Ma quanto pesa questa trasformazione? E' un fatto marginale o centrale nell'economia di oggi?
Basta poco per rendersi conto che questa è andata ormai tanto avanti da fornire una nuova base alla produzione tout court. A tutta la produzione, non solo a quella di oggetti esotici o di lusso.
In termini di utilità che l'utilizzatore riconosce e paga, infatti, il valore del prodotto materiale che esce dallo stabilimento è ormai solo una frazione minore - e continuamente decrescente - del prezzo pagato per acquistarlo. Un abito, nel momento in cui esce dallo stabilimento di confezioni, può valere cinque o dieci volte meno di quello che sarà pagato, presso il negozio, da chi lo indossa. La differenza è, appunto, dovuta al significato estetico, al servizio, al ruolo comunicativo che la moda ha associato al prodotto materiale stesso. Lo stesso vale per tutto ciò che riguarda l'abbigliamento personale, l'arredamento della casa, il cibo, il turismo, la cosiddetta wellness, e anche l'acqua minerale. Il valore dei beni è ancorato a elementi immateriali (significato, esperienza, servizio) prima che ai costi e alle prestazioni del processo materiale che l'ha prodotto.
D'altra parte, la smaterializzazione del valore comincia proprio dalla forza produttiva per eccellenza, ossia dal lavoro. Il lavoro oggi non è più, salvo rare eccezioni, lavoro materiale (uso della forza muscolare per trasformare fisicamente la materia prima in prodotto finito), ma è al 99% dei casi lavoro mentale (cognitivo), nel senso che usa le conoscenze di cui si dispone per produrre altre conoscenze, portatrici di utilità. E questo, al solito, non riguarda ormai pochi ruoli "intellettuali" (i professori, gli attori, gli scienziati ecc.) ma tutti i lavori: anche il lavoro operaio si sviluppa guidando macchine (con la conoscenza) e usando il cervello prima che i muscoli.
Se il lavoro è divenuto ormai totalmente lavoro cognitivo e se il consumo attribuisce la maggior parte del valore al significato o al servizio associato ad un bene materiale, invece che al bene materiale di per sé, dobbiamo prendere atto del fatto che un grande cambiamento si è ormai compiuto: la nostra economia reale è diventata un'economia in cui è la conoscenza che viene messa al lavoro. Viviamo di conseguenza in una forma di capitalismo cognitivo di cui occorre capire le leggi e le possibilità.
Quello che conta in questa trasformazione, non è tanto l'alleggerimento dei processi produttivi, che, come è stato detto, sposta l'accento dagli atomi (pesanti) ai bit (senza peso), quanto il cambiamento del "motore" che genera valore.
Nell'economia della trasformazione materiale (tradizionale) il valore economico era prodotto consumando i fattori produttivi impiegati secondo coefficienti tecnologici prestabiliti. In quel contesto, l'unico modo con cui la conoscenza - in aggiunta alla tecnologia - poteva aumentare il valore prodotto era attraverso il miglioramento dell'allocazione dei fattori tra i possibili usi alternativi. I mercati (prezzi relativi) e le imprese (calcolo di convenienza) facevano appunto proprio questo: generavano valore addizionale rispetto a quello consentito dalla tecnologia, agendo sull'allocazione delle risorse, croce e delizia dell'economia neoclassica di tutti i tempi (anche di quella di oggi). Il ragionamento era presto fatto: se prezzi di mercato e calcolo riuscivano a modificare l'allocazione delle risorse, in modo da destinare terra, lavoro e capitale agli usi che sono in grado, data la tecnologia, di produrre un maggior valore utile dal punto di vista delle preferenze (date) dei consumatori finali, si generava ipso facto un valore addizionale. Il motore dell'economia materiale era dunque fatto di tecnologia, mercati e calcolo: il resto non contava perché – si immaginava – che non potesse produrre valore, ma solo dare una coloratina superficiale al grigio mondo dei coefficienti tecnici, dei prezzi e dei calcoli.
Ma era un'idea sbagliata. Forse plausibile in un'economia di sussistenza dove desideri, esperienze e significati non contano, perché si tratta di ottenere dal lavoro quante più calorie e beni necessari possibili. Ma certo inadeguata a rendere conto di come funziona un'economia in cui le calorie bisogna diluirle e i beni sono diventati non necessari, spesso dannosi. In questa economia "ricca", che va oltre la sussistenza, i bisogni deperiscono se non si trasformano in desideri, le necessità perdono di cogenza, il calcolo mezzi-fini comincia a dare più importanza alla creazione di nuovi fini che all'efficienza con cui i mezzi li perseguono. Insomma, l'economia dei paesi sviluppati apre spazi di libertà che tecnologia, prezzi e calcoli non bastano a riempire. Ci vuole un approccio diverso che consenta di esplorare il nuovo, dando significato e valore alle esperienze possibili.
Questo passaggio viene compiuto attraverso l'economia della conoscenza, in cui il valore viene prodotto costruendo il mondo delle possibilità e creando forme e valori che non sono necessitati, ma frutto dell'immaginazione, della comunicazione e della condivisione.
In questo tipo di mondo, si realizza un cambiamento sostanziale rispetto al modello di produzione (materiale), centrato sul consumo dei fattori. Le conoscenze impiegate per produrre significati, esperienze e servizi, infatti, non si consumano con l'uso. Esse, anzi, mantengono o accrescono il loro valore man mano che vengono ri-usate, propagandosi ad usi successivi, man mano che il loro bacino di applicazione si amplia, nello spazio e nel tempo.
La base della produzione di valore, in un processo del genere, non è tanto la produzione di nuova conoscenza, quanto la propagazione della base di conoscenza pre-esistente in un bacino di usi sempre più ampio. La propagazione ovviamente costa, perché richiede investimenti per adattare le conoscenze a nuovi usi e a nuovi problemi, ma il costo di ri-uso non è mai così grande come quello di (prima) produzione. La propagazione crea valore perché la conoscenza, non consumandosi con l'uso, può essere replicata a costo zero, per tutta una serie di impieghi in cui si ripete lo stesso codice o programma, o, comunque, ad un costo molto basso.
In questo processo, gli usi potenziali di una certa conoscenza non sono alternativi, ma possono sommarsi tra loro mediante propagazione: ad ogni ri-uso della conoscenza si crea un valore addizionale, mentre i costi non crescono o crescono molto poco.
La propagazione, generando valore addizionale, è anche la fonte principale dei profitti ricavati dagli investimenti fatti nella produzione di nuova conoscenza e, successivamente, nella propagazione dei suoi usi. In questo senso, la propagazione è un processo che si ri-alimenta, rendendo conveniente investire nella produzione di conoscenze ulteriori e di ulteriore propagazione degli usi delle conoscenze preesistenti.
Se il valore economico è generato dalla propagazione delle conoscenze, che si rialimenta rinnovando le conoscenze iniziali, allora c'è bisogno di una vera e propria rivoluzione concettuale che porti a vedere il reale "motore" della crescita economica, fino ad oggi rimasto abbastanza nell'ombra. Ecco il significato profondo dell'economia della conoscenza: spostare la visione dell'economia dal processo di produzione a quello di propagazione, ossia dal consumo razionale dei fattori disponibili alla creazione di reti che facilitino la propagazione intelligente, nello spazio e nel tempo, di quanto la società sa e sa fare.
Anche la storia del capitalismo industriale deve essere riletta in questa chiave.
In questi due secoli e mezzo, la propagazione della conoscenza, destinata ad essere ri-usata in bacini sempre più ampi, e l'investimento in apprendimento sono rimaste caratteristiche costanti, anche se di ampiezza sempre maggiore; ma, nel corso del tempo, è cambiato il medium e il metodo della propagazione.
Prima la propagazione ha usato il mercato (per ampliare il circuito di vendita delle macchine), poi l'organizzazione, poi il territorio, poi Internet, e oggi la comunicazione interattiva nelle filiere produttive globali. Attraverso tutti questi passaggi la conoscenza si è "liberata" dalla necessità di essere incorporata in media materiali (le macchine, l'organizzazione, il territorio) e ha cominciato a circolare sotto forma virtuale, appoggiandosi a codici di software o a linguaggi. E' allora che le controfigure iniziali (macchine, organizzazione, territorio) hanno cominciato a non bastare più, costringendo l'economia teorica - che prima si contentava di queste - a fare i conti con la conoscenza in quanto tale, non riducibile a capitale (macchine), ad asset aziendale (organizzazione) o a capitale sociale (territorio). E qui sono cominciati i guai, perché la conoscenza ha proprietà che sono antitetiche rispetto a quelle delle "normali" risorse produttive (terra, lavoro, capitale), e che contraddicono dunque l'impianto di base costruito dalla teoria per spiegare il modo con cui, nella produzione, si genera valore economico.
Le risorse economiche classiche si caratterizzano per essere scarse (hanno valore perché ogni uso le sottrae ad usi alternativi), divisibili (ogni risorsa ha un valore determinato, disgiungibile dagli altri valori coinvolti nel processo produttivo sociale, perché può essere associata a costi e ricavi ad essa imputabili) e strumentali (le risorse sono puri mezzi, da ottimizzare, calcolando le allocazioni migliori per soddisfare fini dati). Ebbene, la conoscenza è una risorsa che, per sua natura (e specialmente se è conoscenza riproducibile) non è scarsa (avendo un costo di riproduzione nullo o quasi), non è divisibile (essendo i suoi costi e i suoi ricavi associati a processi sociali che legano passato e futuro e che intrecciano l'economia di un operatore con quella degli altri), e non è strumentale (perché il conoscere non elabora solo i mezzi, ma cambia le relazioni e le identità degli attori in gioco, modificando i fini, ossia le preferenze degli stessi).
Attenzione: la conoscenza produce valore propagandosi e rinnovandosi, con nuovi investimenti in apprendimento, proprio grazie a queste anomalie. Ossia proprio perché è moltiplicabile (non scarsa), è condivisibile (non divisibile) ed è riflessiva, potendo retroagire sui fini, invece di essere banalmente strumentale.
L'economia teorica tradizionale sta oggi riconoscendo l'importanza della conoscenza con due secoli di ritardo. Ma, in questo riconoscimento, rischia di fare più danni di quanto abbia fatto la sua secolare disattenzione. Infatti, una volta detto che la conoscenza è una risorsa produttiva fondamentale, l'economia tradizionale ha il riflesso condizionale di voler "normalizzare" le anomalie che la conoscenza presenta in quanto risorsa non scarsa, non divisibile e non strumentale. Senza pensare che sono proprio queste anomalie che la rendono una straordinaria fonte di valore economico, mettendo in moto una propagazione che sarebbe gravemente ostacolata una volta che la conoscenza - sottoposta alla terapia della normalizzazione - fosse diventata scarsa, divisibile e strumentale.
Si rischia, per questa incomprensione di fondo, di buttare via il bambino con l'acqua sporca: una conoscenza divenuta artificiosamente scarsa, divisibile e strumentale non sarà capace di propagarsi e di rinnovarsi con la stessa velocità e con la stessa qualità della conoscenza "anomala", che violava i principi classici dell'economia. Si tratta allora di percorrere la strada esattamente opposta, ossia di organizzare le proprietà anomale della conoscenza per renderle compatibili con la sostenibilità del processo di investimento nella produzione di nuova conoscenza. Ciò può essere fatto organizzando, con regole appropriate e in contesti adeguati, la moltiplicazione, la condivisione e la riflessività della conoscenza, in modo da utilizzare fino in fondo le proprietà generative che derivano da queste anomalie.
E' questo il presupposto da cui nascono le esperienze innovative di propagazione della conoscenza attraverso canali non consueti che organizzano l'open source nel software, il fair use nell'impiego di conoscenze protette da diritto d'autore, l'opposizione a criteri estensivi di brevettabilità nell'informatica e nella biologia, la creazione di canali comunitari di condivisione delle conoscenze, lo sviluppo di un'economia del dono che crea legame sociale e fiducia reciproca. Tutte esperienze che hanno come linea di sviluppo strategica la ricerca di forme di propagazione delle conoscenze che organizzino moltiplicazione, condivisione e riflessività in forme compatibili con il criterio di sostenibilità degli investimenti in apprendimento, con cui rialimentare continuamente il processo.
Del resto, si tratta di uno slittamento naturale, inevitabile. Una volta emersi i limiti dell'informazione, che è conoscenza separata dai processi di apprendimento che l'hanno prodotta, si è scoperto la conoscenza come surrogato (equivalente funzionale) dell'informazione, riproponendo spesso lo stesso schema con la sola sostituzione del termine linguistico. Se il passaggio dall'informazione alla conoscenza viene preso sul serio, tuttavia, ci si accorge che la cosa non è così semplice e neutrale come sembra a prima vista. Una volta che l'economia dell'informazione (con le sue straordinarie proprietà replicative = riproduzione a costo zero) viene trasportata in un ambiente complesso, dove bisogna continuamente mettere a punto le conoscenze possedute per "inseguire" un ambiente non prevedibile, non basta più quel tipo di conoscenza codificata che sono i bit e il software destinati all'intelligenza dei computers e delle macchine, senza intervento dell'uomo e dell'apprendimento tipico degli uomini. Anche la mera replicazione di un'informazione o di un programma di software richiede un processo di apprendimento che mette in campo elementi di incertezza, di valutazione, di chiarificazione e di azione da parte di uomini e gruppi di uomini. Ciò riduce gli spazi disponibili per l'automatismo moltiplicativo proprio dell'informazione, e, al tempo stesso, aumenta - grazie all'adattamento e alla re-invenzione degli usi - la capacità di propagazione della conoscenza originale in un contesto di uso sempre più esteso e durevole. Dunque, l'economia della conoscenza è una cosa diversa dall'economia dell'informazione che trionfava ancora anni fa, e che aveva dato luogo alla metafora del "capitalismo informazionale" di Castells, anche se ci possono essere dei ponti che collegano i due mondi.
In realtà, questa (recente) filiazione dell'economia della conoscenza dall'economia dell'informazione è assolutamente riduttiva rispetto al ruolo reale che la conoscenza ha svolto come forza produttiva, assai prima che esistessero i computers e gli automatismi informatici.
Possiamo dire che la conoscenza è stata sempre - anche nel passato remoto - una risorsa importante ai fini della produzione (la produzione dell'homo sapiens è in effetti un'attività "sapiente" perché si distingue da tutte le altre attività produttive, naturali o animali, dal momento che impiega nel lavoro le capacità intellettuali del cervello umano), ma diventa forza produttiva fondamentale solo con l'età moderna, ossia in corrispondenza di quel passaggio fondamentale che fa emergere la conoscenza scientifica come conoscenza autonoma, libera dal potere della religione, della tradizione e dell'autorità politica. La scienza conquista questa autonomia utilizzando come banco di prova per la verità di un'affermazione il principio galileiano dell'esperimento, ossia della riproducibilità delle relazioni causa-effetto affermate.
Ma, una volta che si enuclea un sapere che ha la caratteristica di essere riproducibile, l'economia reale ha a disposizione una formidabile risorsa: una conoscenza astratta (quella della scienza e della tecnologia) che è costruita in modo da essere riproducibile dieci, cento, mille volte e in contesti diversi. Il capitalismo delle macchine, che nasce dalla rivoluzione industriale e si afferma nel corso dell'ottocento come economia della (prima) modernità ha, in effetti, la sua ragion d'essere nelle macchine, che incorporando conoscenza riproducibile (basata sulla scienza), consente enormi economie di scala. Infatti, il lavoro impiegato per progettare la prima macchina può essere ri-usato a costo zero per costruire la seconda, la decima, la millesima macchina. E il lavoro impiegato per progettare la prima unità di un prodotto ottenuto dalle macchine può essere ri-usato altrettante volte per ottenere migliaia o milioni di prodotti identici.
Questo significa che ogni euro (o ora di lavoro) investito nella produzione di nuova conoscenza può rendere molto o anche moltissimo, dal momento che quella conoscenza può diventare utile - generando valore per gli utilizzatori - non una ma cento, mille volte, con effetti moltiplicativi che cambiano radicalmente il significato del produrre rispetto all'economia pre-industriale. La novità sostanziale apportata dalla modernità sta in questo: nel fatto che diventa conveniente - grazie alla natura riproducibile della conoscenza - investire in processi di apprendimento. Si comincia a lavorare non per ripetere operazioni già note, ma per innovare, inventando nuove macchine, nuovi prodotti, nuovi significati. In precedenza la conoscenza veniva usata, ma - non essendo conoscenza riproducibile - il suo limitato bacino di uso rendeva non conveniente investire in apprendimento. La conoscenza che veniva usata nell'agricoltura pre-industriale o nell'artigianato era, in effetti, conoscenza ottenuta gratis dalla tradizione o da processi di learning by doing e di apprendistato che, pur avendo bassi costi, non realizzavano mai grandi economie di scala (da riuso). L'economia della conoscenza comincia dunque ad operare due secoli e mezzo fa, attraverso la meccanizzazione, per svilupparsi poi nel fordismo (dove diventa "organizzazione scientifica"), nell'economia dei distretti (sotto forma di economia della propagazione territoriale delle conoscenze relative alle tecnologie e ai mercati distrettuali), nella New Economy (in cui prende la forma di economia della replicazione/propagazione automatica delle informazioni).
Oggi ereditiamo tutto questo: non possiamo dunque dire che sia una novità. In tutta la modernità (dalla rivoluzione industriale in poi), il capitalismo moderno è stato una economia della conoscenza nel senso che il valore è stato prodotto, in gran parte, dalla propagazione degli usi delle conoscenze disponibili, e dal conseguente re-investimento dei profitti e dei salari così ottenuti nella produzione di nuove conoscenze.
Ma, perché il riferimento alla conoscenza non sia soltanto ornamentale, bisogna capire bene che cosa vuol dire: in cosa differisce il motore dello sviluppo economico quando questo motore viene alimentato dalla produzione e propagazione delle conoscenze, rispetto alla visione classica, in cui, invece, la "benzina" della crescita è data dall'accumulazione nel tempo del capitale e dai guadagni di efficienza che possono essere ottenuti allocando meglio le risorse, grazie alla forza selettiva del mercato e del calcolo imprenditoriale?
In linea generale, possiamo parlare di economia della conoscenza ogni volta che ci troviamo di fronte ad un segmento del sistema economico in cui il valore economico (utilità per i soggetti economici) viene prodotto attraverso la conoscenza. In questi casi, il lavoro umano non trasforma la materia prima, ma - se è lavoro cognitivo - genera conoscenze innovative che, col loro impiego, saranno usate per trasformare la materia (con le macchine) e creare indirettamente utilità. Oppure potranno, in altri casi, fornire servizi utili anche senza trasformare la materia prima, ma semplicemente fornendo un'informazione, una consulenza, una comunicazione che generano direttamente utilità presso l'utilizzatore ecc..
Le utilità create dall'uso della conoscenza possono derivare da diverse forme di uso. Prima di tutto possono derivare dalla riduzione dei costi di un precedente processo produttivo (efficienza). Ma possono anche derivare dalla creazione di un nuovo prodotto o servizio, che non esisteva in precedenza, o dalla produzione – attraverso la conoscenza – di significati, desideri, identità. Oppure dalla personalizzazione del servizio, dalla progettazione di esperienze coinvolgenti, dalla costruzione di rapporti fiduciari e di garanzia e così via. In tutti questi casi, la base materiale di un prodotto può anche rimanere inalterata o subire modificazioni banali: quello che crea valore, infatti, è direttamente la conoscenza, nelle sue varie forme, che viene applicata a tale base materiale.
Ma quanto pesa questa trasformazione? E' un fatto marginale o centrale nell'economia di oggi?
Basta poco per rendersi conto che questa è andata ormai tanto avanti da fornire una nuova base alla produzione tout court. A tutta la produzione, non solo a quella di oggetti esotici o di lusso.
In termini di utilità che l'utilizzatore riconosce e paga, infatti, il valore del prodotto materiale che esce dallo stabilimento è ormai solo una frazione minore - e continuamente decrescente - del prezzo pagato per acquistarlo. Un abito, nel momento in cui esce dallo stabilimento di confezioni, può valere cinque o dieci volte meno di quello che sarà pagato, presso il negozio, da chi lo indossa. La differenza è, appunto, dovuta al significato estetico, al servizio, al ruolo comunicativo che la moda ha associato al prodotto materiale stesso. Lo stesso vale per tutto ciò che riguarda l'abbigliamento personale, l'arredamento della casa, il cibo, il turismo, la cosiddetta wellness, e anche l'acqua minerale. Il valore dei beni è ancorato a elementi immateriali (significato, esperienza, servizio) prima che ai costi e alle prestazioni del processo materiale che l'ha prodotto.
D'altra parte, la smaterializzazione del valore comincia proprio dalla forza produttiva per eccellenza, ossia dal lavoro. Il lavoro oggi non è più, salvo rare eccezioni, lavoro materiale (uso della forza muscolare per trasformare fisicamente la materia prima in prodotto finito), ma è al 99% dei casi lavoro mentale (cognitivo), nel senso che usa le conoscenze di cui si dispone per produrre altre conoscenze, portatrici di utilità. E questo, al solito, non riguarda ormai pochi ruoli "intellettuali" (i professori, gli attori, gli scienziati ecc.) ma tutti i lavori: anche il lavoro operaio si sviluppa guidando macchine (con la conoscenza) e usando il cervello prima che i muscoli.
Se il lavoro è divenuto ormai totalmente lavoro cognitivo e se il consumo attribuisce la maggior parte del valore al significato o al servizio associato ad un bene materiale, invece che al bene materiale di per sé, dobbiamo prendere atto del fatto che un grande cambiamento si è ormai compiuto: la nostra economia reale è diventata un'economia in cui è la conoscenza che viene messa al lavoro. Viviamo di conseguenza in una forma di capitalismo cognitivo di cui occorre capire le leggi e le possibilità.
Quello che conta in questa trasformazione, non è tanto l'alleggerimento dei processi produttivi, che, come è stato detto, sposta l'accento dagli atomi (pesanti) ai bit (senza peso), quanto il cambiamento del "motore" che genera valore.
Nell'economia della trasformazione materiale (tradizionale) il valore economico era prodotto consumando i fattori produttivi impiegati secondo coefficienti tecnologici prestabiliti. In quel contesto, l'unico modo con cui la conoscenza - in aggiunta alla tecnologia - poteva aumentare il valore prodotto era attraverso il miglioramento dell'allocazione dei fattori tra i possibili usi alternativi. I mercati (prezzi relativi) e le imprese (calcolo di convenienza) facevano appunto proprio questo: generavano valore addizionale rispetto a quello consentito dalla tecnologia, agendo sull'allocazione delle risorse, croce e delizia dell'economia neoclassica di tutti i tempi (anche di quella di oggi). Il ragionamento era presto fatto: se prezzi di mercato e calcolo riuscivano a modificare l'allocazione delle risorse, in modo da destinare terra, lavoro e capitale agli usi che sono in grado, data la tecnologia, di produrre un maggior valore utile dal punto di vista delle preferenze (date) dei consumatori finali, si generava ipso facto un valore addizionale. Il motore dell'economia materiale era dunque fatto di tecnologia, mercati e calcolo: il resto non contava perché – si immaginava – che non potesse produrre valore, ma solo dare una coloratina superficiale al grigio mondo dei coefficienti tecnici, dei prezzi e dei calcoli.
Ma era un'idea sbagliata. Forse plausibile in un'economia di sussistenza dove desideri, esperienze e significati non contano, perché si tratta di ottenere dal lavoro quante più calorie e beni necessari possibili. Ma certo inadeguata a rendere conto di come funziona un'economia in cui le calorie bisogna diluirle e i beni sono diventati non necessari, spesso dannosi. In questa economia "ricca", che va oltre la sussistenza, i bisogni deperiscono se non si trasformano in desideri, le necessità perdono di cogenza, il calcolo mezzi-fini comincia a dare più importanza alla creazione di nuovi fini che all'efficienza con cui i mezzi li perseguono. Insomma, l'economia dei paesi sviluppati apre spazi di libertà che tecnologia, prezzi e calcoli non bastano a riempire. Ci vuole un approccio diverso che consenta di esplorare il nuovo, dando significato e valore alle esperienze possibili.
Questo passaggio viene compiuto attraverso l'economia della conoscenza, in cui il valore viene prodotto costruendo il mondo delle possibilità e creando forme e valori che non sono necessitati, ma frutto dell'immaginazione, della comunicazione e della condivisione.
In questo tipo di mondo, si realizza un cambiamento sostanziale rispetto al modello di produzione (materiale), centrato sul consumo dei fattori. Le conoscenze impiegate per produrre significati, esperienze e servizi, infatti, non si consumano con l'uso. Esse, anzi, mantengono o accrescono il loro valore man mano che vengono ri-usate, propagandosi ad usi successivi, man mano che il loro bacino di applicazione si amplia, nello spazio e nel tempo.
La base della produzione di valore, in un processo del genere, non è tanto la produzione di nuova conoscenza, quanto la propagazione della base di conoscenza pre-esistente in un bacino di usi sempre più ampio. La propagazione ovviamente costa, perché richiede investimenti per adattare le conoscenze a nuovi usi e a nuovi problemi, ma il costo di ri-uso non è mai così grande come quello di (prima) produzione. La propagazione crea valore perché la conoscenza, non consumandosi con l'uso, può essere replicata a costo zero, per tutta una serie di impieghi in cui si ripete lo stesso codice o programma, o, comunque, ad un costo molto basso.
In questo processo, gli usi potenziali di una certa conoscenza non sono alternativi, ma possono sommarsi tra loro mediante propagazione: ad ogni ri-uso della conoscenza si crea un valore addizionale, mentre i costi non crescono o crescono molto poco.
La propagazione, generando valore addizionale, è anche la fonte principale dei profitti ricavati dagli investimenti fatti nella produzione di nuova conoscenza e, successivamente, nella propagazione dei suoi usi. In questo senso, la propagazione è un processo che si ri-alimenta, rendendo conveniente investire nella produzione di conoscenze ulteriori e di ulteriore propagazione degli usi delle conoscenze preesistenti.
Se il valore economico è generato dalla propagazione delle conoscenze, che si rialimenta rinnovando le conoscenze iniziali, allora c'è bisogno di una vera e propria rivoluzione concettuale che porti a vedere il reale "motore" della crescita economica, fino ad oggi rimasto abbastanza nell'ombra. Ecco il significato profondo dell'economia della conoscenza: spostare la visione dell'economia dal processo di produzione a quello di propagazione, ossia dal consumo razionale dei fattori disponibili alla creazione di reti che facilitino la propagazione intelligente, nello spazio e nel tempo, di quanto la società sa e sa fare.
Anche la storia del capitalismo industriale deve essere riletta in questa chiave.
In questi due secoli e mezzo, la propagazione della conoscenza, destinata ad essere ri-usata in bacini sempre più ampi, e l'investimento in apprendimento sono rimaste caratteristiche costanti, anche se di ampiezza sempre maggiore; ma, nel corso del tempo, è cambiato il medium e il metodo della propagazione.
Prima la propagazione ha usato il mercato (per ampliare il circuito di vendita delle macchine), poi l'organizzazione, poi il territorio, poi Internet, e oggi la comunicazione interattiva nelle filiere produttive globali. Attraverso tutti questi passaggi la conoscenza si è "liberata" dalla necessità di essere incorporata in media materiali (le macchine, l'organizzazione, il territorio) e ha cominciato a circolare sotto forma virtuale, appoggiandosi a codici di software o a linguaggi. E' allora che le controfigure iniziali (macchine, organizzazione, territorio) hanno cominciato a non bastare più, costringendo l'economia teorica - che prima si contentava di queste - a fare i conti con la conoscenza in quanto tale, non riducibile a capitale (macchine), ad asset aziendale (organizzazione) o a capitale sociale (territorio). E qui sono cominciati i guai, perché la conoscenza ha proprietà che sono antitetiche rispetto a quelle delle "normali" risorse produttive (terra, lavoro, capitale), e che contraddicono dunque l'impianto di base costruito dalla teoria per spiegare il modo con cui, nella produzione, si genera valore economico.
Le risorse economiche classiche si caratterizzano per essere scarse (hanno valore perché ogni uso le sottrae ad usi alternativi), divisibili (ogni risorsa ha un valore determinato, disgiungibile dagli altri valori coinvolti nel processo produttivo sociale, perché può essere associata a costi e ricavi ad essa imputabili) e strumentali (le risorse sono puri mezzi, da ottimizzare, calcolando le allocazioni migliori per soddisfare fini dati). Ebbene, la conoscenza è una risorsa che, per sua natura (e specialmente se è conoscenza riproducibile) non è scarsa (avendo un costo di riproduzione nullo o quasi), non è divisibile (essendo i suoi costi e i suoi ricavi associati a processi sociali che legano passato e futuro e che intrecciano l'economia di un operatore con quella degli altri), e non è strumentale (perché il conoscere non elabora solo i mezzi, ma cambia le relazioni e le identità degli attori in gioco, modificando i fini, ossia le preferenze degli stessi).
Attenzione: la conoscenza produce valore propagandosi e rinnovandosi, con nuovi investimenti in apprendimento, proprio grazie a queste anomalie. Ossia proprio perché è moltiplicabile (non scarsa), è condivisibile (non divisibile) ed è riflessiva, potendo retroagire sui fini, invece di essere banalmente strumentale.
L'economia teorica tradizionale sta oggi riconoscendo l'importanza della conoscenza con due secoli di ritardo. Ma, in questo riconoscimento, rischia di fare più danni di quanto abbia fatto la sua secolare disattenzione. Infatti, una volta detto che la conoscenza è una risorsa produttiva fondamentale, l'economia tradizionale ha il riflesso condizionale di voler "normalizzare" le anomalie che la conoscenza presenta in quanto risorsa non scarsa, non divisibile e non strumentale. Senza pensare che sono proprio queste anomalie che la rendono una straordinaria fonte di valore economico, mettendo in moto una propagazione che sarebbe gravemente ostacolata una volta che la conoscenza - sottoposta alla terapia della normalizzazione - fosse diventata scarsa, divisibile e strumentale.
Si rischia, per questa incomprensione di fondo, di buttare via il bambino con l'acqua sporca: una conoscenza divenuta artificiosamente scarsa, divisibile e strumentale non sarà capace di propagarsi e di rinnovarsi con la stessa velocità e con la stessa qualità della conoscenza "anomala", che violava i principi classici dell'economia. Si tratta allora di percorrere la strada esattamente opposta, ossia di organizzare le proprietà anomale della conoscenza per renderle compatibili con la sostenibilità del processo di investimento nella produzione di nuova conoscenza. Ciò può essere fatto organizzando, con regole appropriate e in contesti adeguati, la moltiplicazione, la condivisione e la riflessività della conoscenza, in modo da utilizzare fino in fondo le proprietà generative che derivano da queste anomalie.
E' questo il presupposto da cui nascono le esperienze innovative di propagazione della conoscenza attraverso canali non consueti che organizzano l'open source nel software, il fair use nell'impiego di conoscenze protette da diritto d'autore, l'opposizione a criteri estensivi di brevettabilità nell'informatica e nella biologia, la creazione di canali comunitari di condivisione delle conoscenze, lo sviluppo di un'economia del dono che crea legame sociale e fiducia reciproca. Tutte esperienze che hanno come linea di sviluppo strategica la ricerca di forme di propagazione delle conoscenze che organizzino moltiplicazione, condivisione e riflessività in forme compatibili con il criterio di sostenibilità degli investimenti in apprendimento, con cui rialimentare continuamente il processo.
(Enzo Rullani, economista, Docente di Strategia d'Impresa all'Università Ca' Foscari di Venezia)
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